S. GERBINO & F !
S. STEFANO
.... in piena epopea
barocca siciliana il Duca di Camastra
ricostruì l'attuale sito di S.Stefano di Camastra, ridando dignità a quegli
artigiani superstiti di un catastrofico evento naturale che aveva
distrutto il vecchio casale nelle sue terre.
I territori di S.Stefano erano ricchissimi di materiali
argillosi e con l'ingegno e la sapienza acquistata dai popoli e
dalle culture che ne avevano dominato i territori nei secoli passati,
questi artigiani si fecero carico di sfruttare questa risorsa
tramandandoci una tra le più prestigiose tradizioni della terra di Sicilia.
La " famiglia GERBINO " fu una delle prime botteghe artigiane,
lavorò ininterrottamente dalla fine del XV° secolo fino ad oggi, per impiantare
vari laboratori di produzione fittile,
Ancora oggi lavorano... il capo è Mario Zaffiro
Web Site: http://www.gerbino.it
e-mail: info@gerbino.it
Quando Luigi Pirandello nel 1900 scriveva la sua famosa novella "La Giara" , è molto verosimile pensare che si riferisse ad una delle tante giare prodotte nelle fornaci della famiglia Gerbino , nelle quali ancora oggi la terra di Sicilia si trasforma, come per mistico rituale, da materia inerte in pregiati vasi.
La lavorazione dell'argilla
a scopo fittile è antichissima quanto lo stesso paese di Santo Stefano di
Camastra, quello originario, anteriore alla disastrosa frana del 1682. I feudatari
Don Giuseppe Lanza e Barresi (1628-1708) duca di Camastra e la moglie Donna
Maria Gomez de Silveyra, principessa di Santo Stefano, volendo ricostruire
il paese richiesero ed ottennero dal viceré spagnolo, unico rappresentante
della corona in terra di Sicilia, la "licentia haedifìcandi" in un Piano del
Castellacelo di loro proprietà, ricco di cave di argilla. Dal 1683, data della
concessione della licenza e sotto la guida del principe, i contadini, trasformatisi
in costruttori riedificarono nell'arco di ventitré anni il paese. La pianta
del centro storico, un rombo inscritto in un quadrato, fu ideata dallo stesso
principe e presenta analogie con gli impianti secenteschi dei giardini di
Versailles e del Palazzo Reale di Madrid. Per l'opera di ricostruzione vicino
al centro abitato vennero impiantati i cosidetti "stazzuni" presso le cave
di argilla, di qualità eccellente, per la lavorazione di materiale da costruzione:
tegole, mattoni e "catusa", o cilindri di terracotta. Da quella prima fase
si passò ad una organizzazione più articolata per produrre laterizi, vasi,
piatti e stoviglie di vario genere. Dopo la metà del XVIII secolo al seguito
del ricco signore Antonino Strazzeri, principe di S. Elia, affluirono a S.
Stefano maestri ceramisti come gli Azzolina e i Palermo da Caltagirone, i
"maiolicari", Mazzeo e Tarallo da Barcellona, e altri maestri provenienti
da luoghi diversi, principalmente dalla vicina Patti, i quali diedero il loro
apporto di esperienza e di lavoro alle nascenti fabbriche del luogo. Gli scambi
commerciali con i maestri "vietresi", i Pizzicara, consentirono ai ceramisti
di Santo Stefano di apprendere e perfezionare la tecnica di rivestimento delle
mattonelle. Fiorente ed apprezzata è stata a partire dal secolo XVIII la produzione
di mattonelle maiolicate esportate in tutto il meridione e richieste anche
da Caltagirone e Palermo, noti centri ceramici, per il rifacimento di pavimentazioni
logorate dall'uso. La realizzazione delle mattonelle maiolicate richiese una
migliore organizzazione delle officine che avevano bisogno di varie maestranze
specializzate. I "turrazzara stampatura", detti così dalla località "Torrazzi",
in prossimità delle cave d'argilla, cHamatijmche "stazzunara", scavavano la
creta e avevano il compito di stampare, ossia pressare l'argilla in cassette
di legno di cm 22 ed imprimere eventualmente con un marchio di bronzo il nome
della fabbrica committente. La creta asciugando si riduceva e il mattone "stampato"
raggiungeva la misura tradizionale di cm. 20 x 20. Una volta asciugati, i
mattoni venivano messi a cuocere in forni a legna e venivano utilizzate per
la cottura circa mille fascine di legna: per tale operazione si richiedeva
sia l'opera dei cosidetti "infurnaturi", specializzati nel sistemare i mattoni
dentro il forno utilizzando i "ritagghia", o ritagli di creta, per evitare
che si toccassero l'uno con l'altro durante la cottura, che quella dei "cucitura"
per il controllo del fuoco che doveva mantenere un calore costante. L'operazione
di cottura durava circa venti ore e quella di raffreddamento quarantotto,
un tempo superiore a quello richiesto per gli altri oggetti di ceramica. Al
trasporto dei mattoni provvedevano le donne che riuscivano a trasportare con
una pezza attoreigliata sul capo o "cruna", fino a trenta mattoni per volta
dalla contrada "Turrazzi" ai luoghi d'imbarco a mare o alle botteghe del paese.
Qui i mattoni venivano decorati utilizzando gli stampi a mascherine consistenti
in cartoncini pesanti imbevuti di olio di lino, che una volta asciutti, diventati
rigidi e impermeabili, venivano traforati secondo un disegno prestabilito
in cui per ogni colore occorreva usare una mascherina diversa.I colori più
usati erano il verde ramina, il giallo, il blu cobalto, il rosso e il manganese,
quasi sempre su smalto bianco, ma alla fine dell'Ottocento vennero utilizzati
smalti colorati, soprattutto di colore azzurro e giallo. Il prezzo aumentava
a seconda della quantità di stampi utilizzati. Dopo la decorazione si procedeva
alla seconda cottura, seguendo il procedimento usato anche nella prima. È
proprio nel XIX secolo, che pur mantenendo viva la tradizione artigiana acquisita
e sperimentata, si assiste alla trasformazione della tecnica di produzione
da artigianale in industriale. L'aumentata richiesta di mattonelle maiolicate
stimola officine ceramiche a produrre di più, meglio e in tempi più brevi.
Il repertorio dei decori in un primo momento non è molto vasto. I disegni
sono semplici, in genere in bianco e blu con l'aggiunta di qualche altro colore
spugnato o marmorizzato. Ad ogni decoro viene dato un nome: "rococò", "cinque
punti", "rigatino", "lancetta": in seguito i decori diventano più numerosi
e ricchi, essendo venuti i ceramisti del luogo a conoscenza della ceramica
napoletana. I fratelli "Liborio e Gaetano Armao di Michelangelo" nella prima
metà del XIX secolo, pur continuando secondo la tradizione a produrre vasellame
per uso domestico, si specializzano nella produzione di mattonelle stagnate
e per migliorarne la qualità si preoccupano di perfezionare la tecnica del
"biscotto", realizzando mattoni compatti e resistenti come quelli napoletani,
anche se di misure poco usuali per S. Stefano: infatti si passa dalla tradizionale
misura di cm 20 x 20 al 21 x 21 circa e allo spessore di cm 2,5. Per migliorare
anche la tecnica pittorica gli Armao chiamano a S. Stefano ceramisti francesi
che si fermano diversi anni a lavorare alle loro dipendenze. Migliorando la
qualità dei colori e dello smalto stannifero che durante la cottura assume
una maggiore luminosità si producono mattoni che si distinguono per raffinatezza,
e per vivacità cromatica, per ricercatezza e sobrietà dei motivi decorativi.
Pur tenedo conto della tradizione ceramica tipica di Santo Stefano vengono
anche introdotti motivi francesi presenti nelle porcellane settecentesche
che utilizzano solo il blu cobalto su bianco. Il decoro generalmente si completa
su quattro o otto mattoni e pur utilizzando la mascherina per facilitare la
lavorazione essi sono rifiniti a mano singolarmente, con l'aggiunta di perfili
e tocchi di colore. I mattoni prodotti nella seconda metà del secolo XIX,
pur presentando ancora un vivace decoro, sono più standardizzati e ridotti
nelle misure di cm. 20 x 20 con uno spessore di cm 2. Alla fine dell'Ottocento
le misure risultano ulteriormente ridotte a cm. 19 x 19 con uno spessore di
cm 1,7; il decoro si svolge all'interno del singolo mattone che risulta privo
di originalità; lo smalto diventa opaco e si perdono le caratteristiche di
raffinatezza che avevano distinto le fabbriche Armao. Nell'Esposizione di
Torino del 1884 la Ditta Armao è presente con vasi e "pregevoli saggi di pavimento";
nell'Esposizione di Messina ottiene una medaglia di bronzo e un'altra all'Esposizione
Nazionale di Palermo del 1891-92 per la produzione di mattonelle. I marchi
degli Armao subiscono variazioni con il susseguirsi delle diverse generazioni
della famiglia. Quello originario è costituito da un ovale o da un rettangolo
con l'iscrizione "Fabbrica Premiata Fratelli Armao - Santo Stefano di Camastra",
oppure da una cornice con volute e motivi vegetali con l'iscrizione di cui
sopra. Agli inizi del 900 il marchio è semplicemente un ovale con l'iscrizione
"Giuseppe Armao e Figli". Gli ultimi proprietari della fabbrica, non avendo
eredi diretti, cedono la ditta alla famiglia Mazzeo con cui erano imparentati
(questa fabbrica oggi non è più esistente). Un'altra ditta impegnata pure
nella produzione di mattonelle smaltate, insieme agli Armao, è quella della
famiglia Gerbino , suddivisa in vari rami, che ha prodotto oltre ai mattoni
anche i "fangotti", o piatti usati originariamente per asciugare la conserva
di pomodoro. I mattoni sono caratterizzati dalla tradizionale misura usata
a S. Stefano di cm 20 x 20 o 19 x 19 e con spessore di cm 2. La decorazione
è a mascherina con interventi manuali. I motivi decorativi prevalentemente
geometrici e vegetali sono legati alla tradizione, come per esempio le trecce,
e si articolano su quattro o otto mattoni; la qualità dello smalto e dei colori
è buona. Anche le fabbriche dei Gerbino subiscono nei primi anni del secolo
XX un declino dovuto all'immissione di manufatti prodotti in serie a più basso
costo e provenienti dai grandi complessi industriali dell'Italia Settentrionale.
I marchi sono diversi a seconda dei rami della famiglia: uno di questi, quello
di " Salvatore Gerbino e fratelli ", è inscritto in un ovale e al centro vi
è un'ancora. Mattoni con marchi della fabbrica Gerbino sono stati rinvenuti
nel Palazzo Rudinì a Palermo durante i recenti lavori di restauro. Altri ceramisti
hanno dato un notevole apporto alla produzione di mattonelle maiolicate, come
per esempio le famiglie Prinzi, Napoli e Piscitello, quest'ultima proveniente
da Napoli ed ancora attiva. La produzione di S. Stefano ha avuto larga diffusione
non solo in Sicilia, ma anche a Reggio Calabria, in Sardegna e nei paesi arabi:
Tunisia, Marocco e Turchia, in concorrenza con il mercato napoletano. Un punto
di riferimento per una maggiore conoscenza della produzione delle maioliche
pavimentate del XIX secolo sono le decorazioni di Casa Armao, dove in origine
era stata impiantata la fabbrica, i fregi del restaurato Palazzo Sergio e
i manti ceramici ancora esistenti del vecchio cimitero, detto anche "della
ceramica", utilizzato tra il 1815 e il 1880, a metà strada tra l'antico centro
di S. Stefano e quello odierno. Sono stati restaurati sessantadue monumenti
sepolcrali degli ottantanove esistenti, in seguito all'intervento della Sez.
II della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Messina finanziato
con D.A. 934 del 15/05/990 dell'Assessorato Regionale BB. CC. AA. e PI., mentre
ventisette monumenti attendono ancora il restauro... Si tratta di documenti
preziosi, datati, e attraverso i marchi posti sul retro si possono individuare
le botteghe di produzione (soprattutto Armao, Gerbino, Napoli) e le diverse
tipologie dei mattoni. È interessante il confronto di alcuni mattoni di produzione
stefanese con altri di produzione napoletana che ad un primo esame risultano
simili. Il mattone, marcato Fabbrica Armao, e quelli marcati Alterio Aniello
e Tommaso Bruno di Napoli, presentano lo stesso motivo decorativo con qualche
piccola modifica, identità frquente che non permette di individuare il mattone
prototipo perché si tratta di una produzione industriale: individuato un motivo
che incontra il gusto del pubblico questo viene immediatamente riproposto
da altre fabbriche. Nel dopoguerra, con la saturazione del mercato di mattoni
provenienti dal Nord Italia, le fabbriche di Santo Stefano non hanno più prodotto
mattoni e in genere la produzione ceramica ha subito una stasi. I pochi ceramisti
rimasti hanno continuato a realizzare oggetti di uso quotidiano e solo in
seguito all'apertura della Statale 113, lungo questo percorso sono nate nuove
botteghe con lo scopo di offrire al turista oggetti tipici della tradizione
di Santo Stefano o altri manufatti con pretese di originalità. Lavorando sugli
ingobbi i ceramisti si sono ispirati alla tipologia greca, al genere grezzo
con decori in rilievo, al genere graffito, ma con l'importazione di vasellame
da Napoli e Deruta hanno ripreso la tecnica dell'invetriatura. Negli anni
50 è nata la Ditta Igor di Andrea Gerbino e Ignazio Orifici, che ha raggiunto
un buon livello sia nello stile che nella tecnica, specializzata soprattutto
nella produzione di eleganti servizi da tavola e di mattonelle maiolicate
che riprendono i motivi tradizionali. Questa ditta, divenuta in breve tempo
punto di riferimento di artisti per la realizzazione di oggetti d'arte, come
per esempio Tono Zancanaro, ha cessato di esistere nel 1970. In questi ultimi
anni altri ceramisti, si sono dedicati a questa produzione. Nel 1934 sulla
scia del tradizionale artigianato locale è sorto l'Istituto di Arte per la
ceramica allo scopo di formare la nuova generazione di ceramisti.
Maria Reginella
Testo pubblicato nel catalogo "Camminando sul passato" mattonella in terracotta
maiolicata dal XVI al XX secolo edito dall Associazione Culturale Andrea Pantaleo
- Monreale 1995 Per gentile concessione